Il Carnevale (24/01/2004) di Rosario Ardilio

Al concetto di “città barocca” si associa automaticamente quello della “teatralità”, dello spettacolo cioè offerto dalle architetture e dagli spazi pubblici principali (piazza, corso), su cui queste si affacciano. Una scenografia di pietra che fa da cornice alla vita dei cittadini e che raggiunge il massimo livello di espressività in certi periodi dell'anno legati a festività o a eventi di altra natura.
E' sicuramente questo il motivo del successo del Carnevale in città come la nostra o come Noto, Avola, Palazzolo : quale migliore occasione infatti di potere recitare la propria parte, di potersi esibire alla pari con tutti gli altri, di potersi sfogare contro i potenti vicini (padroni della terra, politici locali) e potenti lontani (il re, il presidente della repubblica, i politici nazionali), protetti dalla copertura della maschera.

Da sempre i Pachinesi hanno amato il Carnevale e da sempre il teatro principale dei festeggiamenti è stata la Piazza Vittorio Emanuele , in perfetta linea con quel concetto di città barocca di cui dicevamo.

D'altro canto la festa ha le sue origini nei riti dionisiaci degli antichi romani, feste caratterizzate dalla sfrenatezza, dall'eccesso, dalle orge, dal linguaggio volgare e scurrile, dalla ricerca sensuale del piacere. Una valvola di sfogo con una importante funzione sociale: consentire a chiunque di liberare per tre giorni gli istinti repressi da un anno di duro lavoro, di sovvertire le regole sociali, di trasformarsi da servi in padroni e viceversa.

E' chiaro che il Carnevale dei nostri giorni, a Pachino come in qualsiasi altra città, ha perso gran parte dei suoi connotati tradizionali per diventare una festa del consumismo.

Un tempo , ci racconta Corrado Di Pietro nel suo “Il Paese del Vento”, il periodo dei festeggiamenti di Carnevale iniziava con la festa di San Sebastiano, il 20 gennaio; il carnevale aveva dei ritmi ben precisi che, settimanalmente, culminavano in ogni giovedì, fin agli ultimi tre giorni (domenica, lunedì e martedì) antecedenti il mercoledì delle ceneri, in cui la frenesia del popolo arrivava al suo più alto grado.

I quattro giovedì erano così chiamati:
Joviri ri li cummari ” (in questo giorno si riunivano i cummari ri san giuvanni per banchettare insieme)
Joviri ri li parienti ” (banchetto con i parenti)
Joviri zuppiddu ” (forse con riferimento al diavolo, lo zoppo)
“Jovi grassu o lardaloru” (per l'usanza di mangiare carne di maiale, lardo e verdure)
A partire da questo Giovedì grasso, a Pachino, si usava riunirsi a casa di parenti e amici, ognuno portava qualcosa da mangiare, i lupini, a' calia, a' simenza, i calacausi (noccioline), e l'immancabile vino.

Uno dei passatempi preferiti in queste serate tra parenti che precedevano i tre giorni conclusivi, era la proposizione dei luminagghi (indovinelli) o il racconto di storie sui truvaturi (tesori nascosti) o sugli spiriti dei cosiddetti patruna ri luocu.
Gli ultimi tre giorni di carnevale erano chiamati “Sdirri”, o “Li tri jorna di lu picuraru”.

In quei giorni non c'è strada o slargo che non sia invaso da gente mascherata di tutte le età, grandi e piccini presi dall'euforia della musica, del canto dei balli, intenti a lanciarsi coriandoli, borotalco, farina.

Oggigiorno la sfilata è composta in larga parte dai gruppi mascherati presentati dagli Istituti Scolastici, i quali partecipano sempre con grande entusiasmo e impegno. Le sfilate dopo aver percorso gran parte della città si concludono in Piazza, dove dal palcoscenico creato per l'occasione avvengono le numerose premiazioni.

Non c'è mai stata a Pachino una grande tradizione nella costruzione dei carri. Si cimenta ogni tanto qualche scuola nel coinvolgere gli studenti oppure di solito, il Comune acquista un carro già confezionato nelle città vicine (soprattutto Avola).

Un tempo si era soliti preparare il Carro del RE Carnevale, che veniva poi bruciato in Piazza. Un'altra tradizione che si è persa, molto in voga negli anni 50 e 60, era quella del cosidetto Festival: venivano allestite delle baracche di legno per la pesca dei premi (il gioco del sottonovanta) e per la loro esposizione: animali come galline, uccelli, conigli, oche ecc, generi alimentari, dolciumi. Il giocatore dopo avere effettuato la puntata doveva pescare tre numeri da un sacchetto. Se la somma dei tre numeri non superava il 90 il giocatore aveva vinto.

Ecco un bel brano tratto dal libro “ Bummi su nun ti scantari – Almanacco della memoria ” del pachinese Carmelo Giannone, ed. Urso, Avola 2000:

U festivàl
Ancora una volta la piazza del paese era pronta a ricevere una marea di persone.
Come per tutte le feste comandate, anche a carnevale il lùogo di ritrovo per tutti era piazza Vittorio Emanuele.
L'atmosfera era indubbiamente diversa, rispetto alla Sacralità delle feste religiose, ma per il resto non si notava nessuna diversità.
I soliti bambini che scorrazzavano tra i sedili e gli alberi, le solite comari sempre più scatenate nei loro commenti verso ignare e inconsapevoli vittime, i venditori di càlia e nucidda, i caminànti con i palloni.
Tuttavia, a renderla unica e ancora più affascinante, quella volta, ci avevano pensato gli amministratori e gli organizzatori del carnevale.
Una lunga fila di baracche di legno, disposte ai lati della piazza, conteneva un'interminabile varietà d'oggetti e anche d'animali.
La gente vi si accalcava davanti con la speranza di poter portare a casa qualcosa.

Bastavano poche lire per vincere, mediante l'estrazione d'alcuni numeri, un pacco di caramelle, un chilo di pasta, una gallina, un ferro da stiro o il più delle volte una confezione di fichi secchi.
— Piscàti, piscàti... — esortavano, a più non posso, i gestori delle baracche —facile vincere e facile giocare... piscàti, piscàti.
E così tutti, o quasi, tentavano la fortuna. C'era chi, più fortunato di altri, al primo colpo riusciva a vincere una gallina, assicurandosi così il pranzo domenicale, e chi invece non andava al di là dei fichi secchi.
I premi esposti all'interno della precaria costruzione di legno sembravano abbagliare le persone.
La passione per il gioco, la speranza di vincere, con un minimo di spesa, l'emozione suscitata da quel piccolo azzardo s'msinuavano in quelli che si avvicinavano alla baracca.
Al centro della piazza intanto una modesta orchestrina dava il meglio del suo repertorio, invogliando tutti a ballare. Gruppi di mascarati improvvisavano piroette e passi di danza. Nugoli di ragazzini raccoglievano coriandoli da terra e li lanciavano in aria assieme alla polvere delle mattonelle.
Tutti si divertivano in modo semplice e gioioso.
Interi nuclei familiari, persino insospettabili professionisti, a carnevale, si vestivano in maschera e andavano in piazza a fare baldoria.
U festivàl si chiamava. Festival era sinonimo d'allegria, spensieratezza, voglia di uscire dagli schemi, di mimetizzarsi tra la gente senza farsi riconoscere.
Si poteva avvicinare anche la ragazza di cui si era segretamente innamorati e alla quale non si aveva il coraggio di rivolgere neanche la parola.
Quante persone giovani, meno giovani, ragazzini si trovavano spesso in luoghi prestabiliti per vestirsi in maschera e dove poi, alla fine della serata, ritornavano per assumere l'aspetto normale, senza lasciare prova alcuna del recente momento di trasgressione.
Quando poi si ritornava a casa, spesso, ci si sentiva chiedere:
— Che cosa c'era stasera in piazza?
La risposta era scontata: — Nenti, u solitu schfiu.
E questo per evitare il terzo grado: — Con chi sei stato? Che cosa hai fatto?... Chi c'era con te?... Hai controllato tua sorella?
Ma la sera dopo, anzi già dal pomeriggio, ci si trovava sempre a casa del solito amico per rifare tutto nuovamente.
I tre giorni di carnevale erano tre giorni di scherzi, di travestimenti, di calè e naturalmente di grandi abbuffate. C'era il giovedì grasso da rispettare, quasi come il venerdì Santo, ma esattamente al contrario. Enormi pentole di sugo di maiale venhano messe sul fuoco; chili di pasta fatta in casa venivano preparati già dal giorno prima. E, solo a carnevale, venivano tirati fuori dalle credenze oggetti e arnesi che poi per tutto l'anno non venivano più utilizzati. U pèttini e i usa, lunghi e sottilissimi steli su cui si facevano scorrere i gnuòcchili. Entrambi gli attrezzi erano di canna. Il pettine, grazie alla sua caratteristica forma, conferiva alla pasta un disegno molto particolare, fatto d'innumerevoli righe sottili.
Il matrimonio tra la pasta e il sugo di maiale dava vita ad un piacere del palato unico e straordinario. Alzarsi da tavola, dopo averne abusato in quantità, non era sempre facile.
La sera però, l'ultima sera di carnevale, bisognava essere in piazza a tutti i costi. Era l'ultima possibilità di camminare a braccetto con la fidanzata, naturalmente in maschera, di ballare fino a tardi e, perché no di fare qualche puntatina alle baracche.
Poi, il giorno seguente, tutto avrebbe ripreso il normale, tranquillo ritmo quotidiano.

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